GLI STANDARD DELL’AMORE
L’estrema fragilità dei legami umani, la sensazione di insicurezza che essa incute, la necessità di stringere i legami e contemporaneamente di mantenerli allentati, sono tra le tematiche che si snodano lungo tutte le immagini della prima esposizione di opere pittoriche di Filippo Timi. Opere che riproducono un ricordo affettivo privato, e come in tutte le opere della memoria, di un altro tempo, tutto diviene instabile, effimero, incerto e la fragilità che caratterizza la vita di ognuno contagia, inevitabilmente, anche i legami affettivi.
Scrive Gilles Deleuze: “La solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. In una relazione, puoi sentirti insicuro quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia”.
I protagonisti di queste opere sono figure familiari e sentimentali di Filippo Timi, spesso lui da bambino e da ragazzino. Momenti di un album privato che Filippo ha voluto ripercorrere ‘riproducendoli’, ricalcandoli, copiandoli, proiettandoli, memorie e tensioni e visioni e situazioni, in cui emerge prepotente il desiderio di proteggere, riparare, accarezzare, coccolare e accudire, e anche di difendere, e isolare, giorni e rapporti. Per Timi il linguaggio pittorico è la capacità di ricreare legami, lo strumento che permette di superare la distanza fra noi e l’altro; ma nel momento in cui entra in rapporto con le sue foto private, la distanza, di fatto, viene a riproporsi.
Le opere di Filippo Timi sembrano voler dialogare con chi guarda con stile sincero, lacerante, a tratti poetico: con le sue immagini riesce a creare un ponte fra i suoi “personaggi” e l’osservatore che li percepisce con attenzione, perché sembrano toccare i sentimenti legati alla perdita: pur essendo immagini estrapolate in una vita precisa e in un tempo preciso, possono essere guardate restando fuori sia dal tempo sia dallo spazio sia dal contesto. Tutte le immagini ritratte da Timi diventano così un luogo immaginario, nel quale si prende coscienza del valore della vita, un luogo dove niente è estraneo, niente è indifferente, niente è accaduto invano. Il tema di queste tele di Filippo Timi sembra però essere la dissoluzione dell’immagine, sceglie questa tecnica come ideale mezzo per evocare e riprodurre immagini private. Timi sembra aver voluto esplorare la relazione esistente tra la realtà e la sua rappresentazione mediante la fotografia fino a fare dei personaggi dei suoi ricordi delle immagini sfocate. Ben consapevole della fascinazione per la pittura di Gerhard Richter, Timi ‘scopre’ il potere delle immagini, facendo emergere o scomparire le immagini stesse. Timi rianalizza le figure del proprio passato per creare immagini che riflettono istintivamente i confini tra la rappresentazione e l’astrazione, dipingendo forme in dissolvenza tratte da fotografie di luoghi apparentemente marginali in cui il vedere è il principale protagonista. Opera dopo opera emerge un’immagine accidentale poi tradotta in un dipinto, e in cui processi di trasformazione generano forme evanescenti, come la materia stessa del ricordo.
Diverso il discorso che riguarda i disegni. Una collezione di oranghi, gorilla, scimmie e scimpanzé. La scimmia, da sempre figura onnipresente nella mitologia e cultura, sembra possedere un’immagine enigmatica ma è spesso circondata da un’aurea di comicità, come se fosse, allo stesso tempo, un clown e uno stregone.
Filippo Timi, che non ha formazione accademica, vede nel disegno una forma di purezza formale a cui attingere per la propria fantasia, e la possibilità di rappresentare una insolita compagnia. Tecniche diverse che altro non esprimono se non il suo desiderio di sperimentare tutto ciò che di non familiare riesce ad usare per creare le sue opere. Un Timi inaspettato, pieno di pudore e di delicatezza. E ora anche la primavera può arrivare.
Francesca Alfano Miglietti
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